La sindrome di Cenerentola
Il Made in Italy non necessita di un Piano di finanziamento per diventare resiliente e riprendersi. Perché il Made in Italy è già resiliente e si è pure già ripreso dalla crisi senza aspettare nessun aiuto, con le proprie risorse ed intelligenze.
Il Made in Italy è per antonomasia l’insieme di settori produttivi più resiliente che conosciamo in Europa. E’ flessibile, cangiante, innovatore per definizione, ma anche sensibile interprete e cultore della tradizione e dei valori classici.
Quando il Made in Italy necessita di sostegno, di ricerca, di innovazione, di regole speciali, di aiuto finanziario, viene additato come fosse un bandito che produce solo lusso e cose per ricchi privilegiati di tutto il mondo, quindi da punire. Quando va a gonfie vele ecco che si trova un modo per ridimensionarne il valore additandolo a piccolo comparto marginale che non può e non deve sognare di competere con i veri settori trainanti: l’energia, le materie prime, la pubblica amministrazione, l’agricoltura e l’industria vera – quella delle grandi fabbriche tecnologizzate e imponenti.
L’invito a festa a Palazzo
Ma oggi il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza consegna, anche al Made in Italy, una chance incredibile: una cifra non esattamente definita tra i 150 e i 200 milioni di € saranno investiti dal Ministero dell’Università e della Ricerca in 3 anni per realizzare un settore migliore, in primis più circolare e sostenibile. Non era mai successo e non penso che nella mia auspicabilmente lunga esistenza potrò rivedere un’altra volta una cosa del genere.
Non si può nemmeno dire. “che è tanto che aspettavo un’occasione così!” perché nessun ricercatore o università del mondo avrebbe mai potuto nemmeno sognare una situazione del genere. Quindi comincia l’ansia da prestazione. Non è più tempo di lagne, né di scuse: o sapremo gestire una situazione del genere oppure meritiamo di essere appesi al pennone della nave, come singoli e come sistema. E qui viene il bello. Perché prima di investire su questo settore bisogna intendersi su cosa sia davvero il Made in Italy e quale sia il suo miracoloso modo di sviluppare valore secondo un moltiplicatore che nessun altro settore possiede.
Ecco il Made in Italy: un modesto e leggero taglio di stoffa fatto di fili intrecciati diventa non solo una merce da decine di migliaia di euro di costo finale, ma che un sogno per tante persone che desidereranno anche solo vederlo sfilare addosso alla modella o al modello giusti, per poi diventare oggetto di studio storico e critico nei secoli a venire. Il Made in Italy è un settore che è destinato strutturalmente a rompere in continuo il ghiaccio della resistenza al cambiamento, che muta ogni giorno in imprevedibili direzioni, trascinando con sé la definizione del gusto dominante globale e definendo la direzione del cambiamento per tutti gli altri settori che possono permettersi di viaggiare più lentamente.
Di cosa si parla quando si parla di Made in Italy
Karl Marx scriveva nel libro I del Capitale circa 150 anni fa che la merce è qualcosa di “sensibilmente sovrasensibile, una cosa quasi teologica”. Si riferiva alla merce di moda, a certi oggetti per la casa, insomma a tutte le cose meravigliose che sappiamo creare quasi dal nulla che portavano gli operai delle fabbriche e delle miniere a rovinarsi l’esistenza per produrle e poi per poterle sognare e forse avere un giorno. Bene, proviamo dunque a fare una sintesi su cosa sia il made in Italy.
Prima di tutto è un settore che l’Europa chiama Industrie Culturali e Creative, perché i fattori chiave della sua capacità di creare valore sono: cultura, creatività e progetto integrate in chiave produttiva e organizzata.
È un settore che deve cambiare di continuo e con una velocità di azione unica nell’orizzonte dell’industria; per farlo usa processi e soluzioni che devono essere pronti e collaudati, per capirci è un settore che non investe in ricerca di base perché è basato sulla capacità di trasformare quello che esiste perché altri settori produttivi lo mettono a disposizione facendo ricerca di base di solito destinata a settori molto più grandi.
E’ un settore che esiste, se esiste una domanda di alta qualità, che sa riconoscere e che può permettersi di pagare la qualità. Per questo il rinascimento è la culla del Made in Italy, perché la nascita della ricca borghesia ha ribaltato il mondo di allora creando la necessità di dare forma al “novo mondo” di una classe agiata che poteva mettersi in mostra in una società che era bloccato da aristocrazia, esercito o clero. Questo significa che deve essere internazionale, oppure muore, perché in nessuna nazione esiste un mercato abbastanza vasto da costituirne il riferimento unico.
Il Made in Italy è fatto di disegno, stile, cultura, design, sensibilità, arti, messa in scena, fotografia, immagine, audiovisivo, spettacolo, integrazione con i valori del territorio, ma soprattutto è fatto di lavoro super specializzato e di alta qualificazione e di difficile riproducibilità. E’ per queste componenti che il Made in Italy è in Italia. Altrimenti potrebbe essere ovunque ci siano i soldi per investire in tecnologie, processi produttivi e materie prime preziose e prestazionali.
La domanda di alta qualità di oggi è una domanda culturalmente attrezzata, non può essere solo lo 0,8 della popolazione occidentale, che ha un reddito superiore ai 100 mila €. E comunque questa élite, che vuole comprare e può permettersi la qualità, oggi pretende che i prodotti siano sostenibili e circolari. Ma indipendentemente da ciò nessuno sul Pianeta può permettersi che non lo siano e che per produrre un bene di alta qualità di inquinino territori vitali in modo indelebile.
Infine per fare tutto questo oggi bisogna impiegare tanta tecnologia di varia origine in modo integrato e simultaneo: tecnologie abilitanti e basate sui dati, tecnologie chimiche e biotecnologie, tecnologie dei processi produttivi, tecnologie di rappresentazione, tecnologie dei materiali, etc.
Tutto quanto premesso che…
Certamente ci sono poi fattori di contesto senza i quali il Made in Italy nemmeno può essere concepito: pace sociale, elevato tasso di istruzione, finanza disponibile, qualità della vita e benessere diffuso.
Ecco la sfida che il PNRR ci sta chiedendo è questa: non lasciare indietro nessuna di queste componenti di una incredibile ricetta delicata e sapiente. Investire su ciascuno di questi capitoli, ma soprattutto sull’integrazione OLISTICA, come dice la legge del Ministero della Ricerca, tra questi fattori, tutti egualmente strategici, affinché la rivoluzione verde sia integrata ma non distrugga la magia del made in Italy. E penso che 180 milioni di € da investire in 3 anni debbano essere una dimensione nella quale, anche volendo, sia difficile essere escludenti.
Flaviano Celaschi (PhD., professore ordinario in disegno industriale Università di Bologna, presidente del cluster regionale Industrie culturali e creative dell’Emilia Romagna, membro del comitato scientifico del cluster nazionale MINIT, chief editor della rivista scientifica internazionale DI-ID Disegno industriale – industrial design).